di Giulia Siviero
E di come per secoli restò asessuato, prima di diventare uno degli stereotipi più conosciuti e diffusi legati alle donne
Ci sono cose da maschi che le femmine non possono fare e ci sono cose da femmine che è vergognoso che i maschi facciano. Tra queste, indossare qualcosa di rosa. Quello dei colori attribuiti in modo automatico a bambini e bambine è uno degli stereotipi più radicati e scontati legati alla differenza di genere, e questo stereotipo ha una storia e un’evoluzione.
La prima cosa da sapere è che l’associazione tra il rosa e il femminino avviene solo in tempi relativamente recenti e per una scelta arbitraria. Per secoli, infatti, il colore rosa rimase asessuato.
Nel Diciottesimo secolo era perfettamente normale per un uomo indossare un abito di seta rosa con ricami floreali. I bambini e le bambine fino ai 6 anni, inoltre, erano vestiti e vestite con abiti lunghi di colore bianco senza sostanziali differenze tra maschi e femmine, se non qualche piccolo particolare come per esempio la posizione dei bottoni. La scelta del bianco era soprattutto di natura pratica: gli abiti bianchi e i pannolini bianchi di stoffa erano infatti più semplici da lavare e candeggiare. Più che basata sul sesso, la distinzione degli indumenti avveniva per età: differenziava semplicemente i più piccoli dai più grandi.
Il rosa e il blu, insieme ad altri colori pastello, furono introdotti nell’abbigliamento per bambini nella metà del Diciannovesimo secolo, ma non implicavano alcun significante di genere. Uno dei primi riferimenti all’attibuzione dei colori al sesso si trova in “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, dove un nastro rosa è usato per identificare la femmina e uno azzurro il maschio. L’usanza però viene definita dalla stessa Alcott come “moda francese”, come a dire che non era ancora una regola riconosciuta ovunque, ma anzi, era un specie di vezzo “esotico”:
Tra gli anni Trenta e Quaranta le cose iniziarono però a cambiare: gli uomini cominciarono a vestire con colori sempre più scuri, associati al mondo degli affari, per distinguersi dalle tinte chiare percepite come più femminili e legate alla sfera domestica. L’abbigliamento di bambini e bambine iniziò a venire differenziato in età sempre più giovane, anche a causa della crescente diffusione delle teorie di Freud legate alla sessualità e alla distinzione di genere. Siamo ancora in una fase incerta, comunque: per parecchi decenni, fino alla Seconda Guerra Mondiale, i colori continuarono a essere usati in modo intercambiabile.
Non è chiaro come a un certo punto, negli anni Cinquanta, avvenne una precisa assegnazione dei colori: «Poteva andare diversamente, fu una scelta del tutto arbitraria», spiega Jo B. Paoletti. Il rosa finì per essere identificato con le donne e divenne onnipresente non solo nell’abbigliamento ma anche nei beni di consumo, negli elettrodomestici e nelle automobili. La bambola Barbie fu introdotta nel mercato proprio in quegli anni e consolidò la femminizzazione del rosa.
Il rosa associato alla femminilità fu fortemente criticato durante gli anni Sessanta e Settanta, con la diffusione del movimento femminista e la messa in discussione dei ruoli tradizionali di genere. Le donne iniziarono ad adottare stili più neutri, privi di dettagli riconducibili al sesso.
Furono gli anni Ottanta a imporre definitivamente l’idea dei colori che marcatamente segnalavano il genere d’appartenenza del bambino o della bambina. In quegli anni scomparvero i vestiti unisex e si imposero definitivamente una serie di stereotipi legati all’infanzia e al mondo dei giocattoli: soldatini e costruzioni per i maschi, bambole e pentoline per le femmine. Fu importante anche la diffusione della diagnosi prenatale e della conseguente possibilità di scoprire il sesso prima del parto. A quel punto, ebbero la meglio le strategie di marketing.