A cura di Adriana Aronadio
Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali (…) vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire un animale. (…) Meditai a lungo sulle avventure della giungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo disegno. Il mio disegno numero uno.(…) Mostrai il mio lavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: “Spaventare? Perché mai uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?”
Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante.
(Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe)
Il nostro sguardo non è capace di cogliere l’invisibile e la nostra ragione meccanicamente trae le proprie conclusioni ed emette i propri rigorosi giudizi basandosi esclusivamente sull’evidenza di un’apparenza.
Su quest’ultima poi costruiamo velocemente opinioni, atteggiamenti, relazioni, la stessa considerazione che abbiamo di noi stessi e degli altri. Naufraghiamo o veleggiamo sulla superficie mutabile del visibile.
Perché ciò che appare è per noi così importante? L’essere umano affonda le radici del proprio essere nel mistero e fiorisce solo alla luce dell’evidenza? Siamo speciali o qualcosa ci rende tali?
La “specialità”, in fondo, non è altro che una proprietà di ogni individuo che non sempre e non tutti siamo capaci di cogliere perché il suo manifestarsi, spesso silente, non cattura la nostra attenzione.
Essere speciali allora non coincide con il sentirsi speciali (perché non c’è essere che non lo sia, anche inconsapevolmente) e quando ingenuamente disegniamo l’elefante dentro il boa, spinti dal desiderio di volerci seriamente spiegare, facilmente verremo derisi e mal consigliati da quei severi ed onesti misuratori del visibile sempre pronti a pesare la quantità e ad applaudire alla forma, perché incapaci di cogliere l’essenza.
L’esperienza della derisione o del semplice fraintendimento può condurre alcuni ad una temporanea paralisi vissuta in un nascondimento scelto come rifugio, nel quale poter prendersi serenamente cura della propria rosa e dove recuperare la consapevolezza del valore unico che essa rappresenta a prescindere da qualsiasi sguardo o giudizio, da quel senso di inadeguatezza che cii pervade l’animo, dall’erronea convinzione di non aver nulla da mostrare, né dimostrare.
Compito questo che non va in alcun modo trascurato, né troppo a lungo rimandato perché il giorno in cui ci appiattiremo sull’evidenza e lasceremo che nulla provochi la cecità della nostra vista, le nostre mani non toccheranno altro che la superficie di un vuoto cappello, ma noi saremo fuori o dentro la pancia di un boa?
Antonella Foderaro
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“Da te, gli uomini”, disse il piccolo principe, “coltivano cinquemila rose nello stesso giardino … e non trovano quello che cercano …”
“Non lo trovano”, risposi.
“E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua”
“Certo” risposi
E il piccolo principe soggiunse:
“Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore”.
(Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe)