A cura di Adriana Aronadio 19.01.2013

Accoltellate, uccise con il phon nella vasca da bagno, bruciate, maltrattate ed umiliate ripetutamente, per anni, solo perché donne. Per non parlare poi di quelle che arrivano a suicidarsi, perché oltraggiate e mortificate, fisicamente e psicologicamente, dal proprio aguzzino, dalla società intera e dalle Istituzioni che non l’hanno aiutata, ma abbandonata.

Sono queste le notizie che leggiamo quasi quotidianamente; in Italia, ogni due-tre giorni una donna muore per mano di un uomo a cui era legata affettivamente e sentimentalmente.

Nell’ultima indagine Istat del 2006 è emerso che sono 6 milioni 743 mila le donne, dai 16 ai 70 anni, vittime di violenza fisica e sessuale. Mentre il numero di omicidi di uomini su uomini è diminuito dall’inizio del 1990, quello delle donne uccise dagli uomini è aumentato.

Ci sarà un motivo se nel 2012 l’Italia è scesa dal 74° all’80° posto – dopo il Ghana e il Bangladesh – nella classifica del Gender Gap Report sulla condizione della donna nel mondo, stilata dal World Economic Forum.

Solo nel 2012 – e siamo ancora ai primi di novembre – sono più di 100 le donne assassinate da padri, fratelli, mariti, ex mariti, conviventi, ex fidanzati. Nel 2011 sono state 137; nel 2010, invece, 127.

Una vera e propria mattanza, con movente di genere, che ha portato a parlare anche in Italia di “Femminicidio”.

Sebbene possa sembrare un neologismo, questa categoria socio-criminologica non è nuova. La prima volta è stata utilizzata da Diana Russell e Jill Radford, sociologhe e criminologhe femministe statunitensi, nel 1992, nella sua accezione più stretta di “Femmicidio”, nel senso di uccisione misogina di una donna da parte di un uomo. Il termine è stato poi sostituito da “Femminicidio”. Questa espressione nacque dopo i fatti di Ciudad Juàrez, città al confine tra Stati Uniti e Messico, in cui dal 1993 è stata compiuta una strage di donne, di età compresa tra i 6 e i 25 anni (4500 giovani donne scomparse e più di 450 stuprate, torturate, mutilate e poi uccise ed abbandonate nel deserto). Marcela Lagarde, antropologa messicana e parlamentare femminista, volle estendere il significato di “Femminicidio”, definendolo come: “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine, che possono culminare con l’uccisione della donna stessa”.

In Messico, così come in altri Stati latinoamericani, è stato l’ONU ad indicare di inserire nella legislazione nazionale il Femminicidio come reato. Anche in Italia, unico paese non latinoamericano, l’ONU, allarmato dai dati raccolti dalla rete nazionale dei Centri Antiviolenza, ha inviato a Gennaio una Special Rapporteur, Rashida Manjoo, per verificare lo stato del nostro Paese in materia di violenza sulle donne. Nella sua Relazione, presentata il 25 Giugno, presso la sede delle Nazioni Unite a Ginevra, nel corso del Consiglio dei Diritti Umani, è stato dichiarato che “il Femminicidio in Italia è crimine di Stato, tollerato dalle pubbliche Istituzioni e che la maggioranza delle manifestazioni di violenza non sono denunciate perché vivono in un contesto culturale maschilista, dove la violenza in casa non è sempre percepita come un crimine”.

E’ necessario intervenire affinché, uomini e donne, insieme, riflettano sul rapporto maschio-femmina che sembra essere basato su un attaccamento e un’affettività disfunzionali, in quanto sempre più improntato all’odio, alla rabbia, alla possessione, all’incapacità da parte dell’uomo di sopportare il rifiuto, la rottura; un rapporto caratterizzato da uno squilibrio di potere, secondo cui la donna è un oggetto di proprietà dell’uomo e non ha diritto di scelta e di decisione, ma soprattutto non ha il diritto alla vita.

L’amore è una scelta, le donne sono libere e di amore non si può e non si deve morire.

Scriveva Eric Fromm ne “L’arte di amare” che l’amore si fonda su premura, rispetto, responsabilità e comprensione. Focalizziamoci su questi elementi e vediamo dove possiamo migliorare.

Fonte: Nicoletta Calizia, Sociologa e Criminologa