Cassazione civile , SS.UU., sentenza 05.12.2013 n° 27266 (Giuseppina Mattiello)

 

È legittima la normativa nazionale che prevede l’impossibilità per i dipendenti pubblici part time di svolgere contemporaneamente la professione forense.

Cosi’ hanno deciso le Sezioni Unite, con la sentenza 8 ottobre - 5 dicembre 2013, n. 27266.

Nel caso all’esame della Corte, un dipendente del Ministero dei Trasporti a tempo parziale era iscritto dal 1997 nell’albo degli avvocati, in virtù della disposizione di cui all’articolo 1, comma 56, della Legge 23 dicembre 1996, n. 662, che consentiva la doppia attività.

A seguito dell’entrata in vigore della Legge 25 novembre 2003, n. 339 di modifica della precedente, il ricorrente manifestava la sua intenzione di continuare a mantenere il rapporto di pubblico impiego, esercitando nel contempo anche la professione di avvocato.

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di appartenenza, ritenendo la sussistenza dell’incompatibilità, ordinava la cancellazione dell’impiegato dall’albo.

Il dipendente, soccombente avanti al Consiglio nazionale forense, ricorreva in Cassazione, sostenendo principalmente che la legge del 2003:

  1. introduce un limite all’iscrizione nell’albo degli avvocati, ma non una sopravvenuta causa di incompatibiltià;
  2. comporta una lesione del principio di uguaglianza in quanto viene stabilito un divieto di svolgimento della professione forense non previsto per situazioni di maggiore rilevanza pubblicistica, quali l’espletamento delle funzioni di parlamentare o di ministro;
  3. contrasta con il principio di ragionevolezza, tutela dell’affidamento e della concorrenza e del buon andamento della P.A.;
  4. realizza la c.d. “discriminazione al contrario”, perché gli avvocati stabiliti o integrati in Italia non possono essere dipendenti pubblici, ma possono essere dipendenti di corrispondenti istituzioni pubbliche nello stato membro ove hanno acquisito la qualifica professionale di avvocato.

Le Sezioni Unite, nella sentenza in commento, si sono interrogate, in particolare, sulla possibilità di un’abrogazione tacita della Legge n. 339/2003 (quanto all’incompatibilità ivi sancita tra l’esercizio della professione di avvocato e l’impiego pubblico part time) per effetto della normativa successiva (in particolare, D.l. 138/2011 e D.P.R. 137/2012), costituente ius supervenies.

La Suprema Corte ritiene di dover escludere l’intervenuta abrogazione per il rilievo decisivo che l’incompatibilità sancita dalla Legge 339/2003 “risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata.. in particolare la suddetta disciplina mira ad evitare un contrasto tra interesse privato del pubblico dipendente ed interesse della p.a. ed è volta a garantire l’indipendenza del difensore rispetto ad interessi contrastanti con quelli del cliente”.

Inoltre, come già rilevato dalla Corte Costituzionale, la disciplina in esame, avendo concesso ai dipendenti pubblici part-time già iscritti all’albo degli avvocati un primo periodo di durata triennale, onde esercitare l’opzione per l’uno o per l’altro percorso professionale e poi, ancora, un altro di durata  quinquennale, in caso di espressa scelta in prima battuta della professione forense, ai fini dell’eventuale richiesta di rientro in servizio, soddisfa pienamente i requisiti di non irragionevolezza della scelta normativa sottesa alla Legge 339/2003.

Infine, gli eventuali effetti anticoncorrenziali della normativa in oggetto trovano la loro giustificazione alla luce del rilievo che essi costituiscono l’invitabile conseguenza della prioritaria esigenza di soddisfare l’interesse pubblico a difendere i valori fondamentali della professione di avvocato, quali i principi di indipendenza e integrità. 

 (Altalex, 16 dicembre 2013. Nota di Giuseppina Mattiello)