Deficit è il nome che noi diamo a quello che i contabili chiamano indebitamento netto; è quella cifra che non può superare il 3% del PIL e che dobbiamo annullare per rispettare la regola costituzionalepareggio di bilancio.
Il deficit domina letteralmente le nostre vite, come un incubo. Rappresenta quello che ci manca. Da esso dipendono molti aspetti della nostra esistenza quotidiana: lavoro, pensioni, sanità, scuola, tasse e altro ancora. E il mezzo che lega il deficit alle nostre vite è un atto con un nome freddo: la legge di stabilità.
Tutti ne abbiamo sentito parlare, molti hanno cercato di capirci qualcosa, pochi sembrano esserci riusciti. Avrebbe dovuto essere presentata il 15 ottobre; abbiamo avuto un testo il 22 ottobre, esattamente una settimana dopo. E in questa settimana si è proceduto a voci e a tentoni; a volte si è avuta l’impressione che il governo fosse come il dottore che visitasse un paziente: “Fa male qui?” E che, al grido di dolore, ritirasse la mano. Salvo tornarci dopo, fatta l’anestesia e armato di bisturi.
E non è che l’inizio. Perché dopo la legge di stabilità ci aspetta un “collegato”; insomma, la manovra non è solo in ritardo: è anche a rate. E ancora, dopo verrà l’iter parlamentare e comincerà il classico “assalto alla diligenza”. Chi si occuperà di seguire la manovra in Parlamento avrà di che pentirsi di aver chiesto tale compito: dovrà governare un diluvio di emendamenti; dovrà capirne gli effetti sui saldi di finanza pubblica; dovrà escludere quelli non pertinenti; dovrà evitare che le nuove norme confliggano con quelle esistenti e controllare che siano utili per gli italiani tutti. E tutto questo lavoro confluirà in un maxi-emendamento, un testo su cui sarà messa la fiducia, mettendo anche così fine ad ogni discussione.
In paese ordinato e civile non si improvvisa in questo modo un passaggio tanto delicato della vita pubblica: non ci si riduce all’ultimo minuto, con articoli e commi modificati, soppressi o inseriti in modo confuso e frettoloso; non si gioca con le parole e i nomi (Trise, Tasi, Tari…), per nascondere i fatti; non si fanno tornare in qualche modo i conti, magari con qualche trucco; non si esautora il Parlamento dal suo ruolo di controllo a colpi di fiducia. Nella legge finanziaria di un paese serio non c’è, come nella nostra, un articolo che ha per titolo “rifinanziamento di esigenze indifferibili” perché se le devi rifinanziare vuol dire che le hai già differite!
Un paese in cui non si improvvisa inizia per tempo, mesi prima, la procedura di bilancio. Disegna i possibili scenari economici; sceglie gli obiettivi da perseguire; cerca gli strumenti adatti a conseguirli; avvia consultazioni su come disegnare con le leggi quegli strumenti. Quando redige la proposta, quella è la proposta, non una delle tante possibili, sciorinate come un biscazziere fa con le tre carte. Quando chiama il Parlamento a discuterne, gli permette di dire la sua opinione; ma gliela fa dire sugli obiettivi, sui singoli strumenti nella loro interezza, non sui dettagli che sono già stati discussi durante le consultazioni; e tanto meno sulle miserie clientelari. Così si forma il bilancio in un paese ordinato e civile.
Perché non funziona così da noi? Tralasciamo veri o presunti caratteri nazionali, come il pressapochismo o l’imprevidenza; ne ricaveremmo al massimo una proposta morale o culturale. E noi, per cambiare il verso all’Italia, abbiamo invece bisogno di una spiegazione politica e di una proposta politica.
E la spiegazione politica è proprio il deficit. La legge di stabilità ha ormai un unico fine: non il lavoro, l’economia o quant’altro, ma solo ridurre il deficit e pareggiare il bilancio. Ci hanno imposto come regola di bilancio la più stupida e noi l’abbiamo presa come l’unica.
Cambiamo verso.
Se non possiamo cancellare quella regola, mettiamogliene accanto una più forte e più intelligente: sia il Parlamento a compiere il primo e più importante atto della procedura di bilancio, e cioè fissare gli obiettivi, come occupazione, istruzione, politica industriale o infrastrutture.
Se una tale regola ci fosse già stata, avremmo potuto in questi mesi preparare una manovra ordinata e produttiva; avremmo insomma parlato un po’ di più di lavoro, un po’ meno di vincoli di bilancio e forse per niente di Imu. E non staremmo qui, ora, come i poveri di Miracolo a Milano a inseguire lo sbiadito e sfuggente raggio di sole di una ripresa incerta. Quel raggio di sole ce lo saremmo creati da noi; e alla sua luce si sarebbe dileguato l’incubo chiamato deficit.