A cura di Adriana Aronadio
L’invidia può essere definita come uno stato d’animo in cui prevalgono alternativamente il desiderio di possedere ardentemente un qualcosa che qualcun altro ha, e il desiderio di distruggere quanto l’altro ha o rappresenta.
L’invidia si caratterizza pertanto come desiderio ambivalente: avere ciò che gli altri hanno, oppure sperare che gli altri perdano quanto posseggono. In entrambe le opzioni, il confronto della propria situazione con quella delle persone invidiate costituisce il nucleo più intimo attorno al quale ruota l’esistenza della persona che invidia.
L’invidia diviene patologica nel momento in cui i desideri della persona danno concretamente il via ad azioni che effettivamente danneggiano l’altro.
Tuttavia, anche a prescindere da casi in cui l’invidia è manifestamente patologica, è bene occuparsi di essa perché è un sentimento doloroso, dal quale è difficile liberarsi attraverso riflessioni logiche e razionali. L'invidia è penosa per chi la sperimenta, perché comporta il vivere in pieno sentimenti negativi, quali il rancore, l’ostilità e l’odio.
Questa parentela con un odio più o meno intenso, ha fatto si che l’invidia non fosse trascurata dalle religioni e dalla letteratura. Nella religione cattolica, per esempio, l'invidia è uno dei sette vizi capitali. L'iconografia tradizionale la rappresenta con l'immagine di una donna vecchia, misera, zoppa e gobba, intenta a strapparsi dei serpenti dai capelli per gettarli contro gli altri. Nel buddismo è considerata uno di quei fattori mentali che, facendo germogliare l’odio, accecano la personalità di un individuo. Shakespeare, attraverso la figura di Iago, ci rappresenta la massima espressione dell’invidia: egli insinua, in Otello, il tradimento di Desdemona con l’obiettivo preciso di distruggere la felicità altrui. Finendo questa breve excursus, si può anche ricordare come Dante nel Purgatorio ponga gli invidiosi seduti sulla sesta cornice, con gli occhi cuciti con il fil di ferro per l’aver gioito delle disgrazie altrui.
Tendenzialmente la persona invidiosa cerca di difendersi dal suo vissuto emotivo attraverso una duplice reazione: svalutando l’altro e svalutando l’oggetto che si desidera, non diversamente da come fa la volpe nella favola di Esopo “La volpe e l’uva”. Purtroppo queste reazioni difensive non aiutano la persona nel superare l’invidia, la quale continua ad assillarla.
La letteratura psicologica sull’argomento ha evidenziato come l’invidia possa avere radici molto profonde nella personalità. Può essere stata causata da una mancanza di affetto in passato, da un'eccessiva tendenza alla competitività, da troppi desideri che sono stati frustrati.
Tuttavia, da un punto di vista terapeutico, ricostruire insieme al paziente le origini della sua invidia non fa superare compiutamente la situazione. Certo lo “spiegarsi” l’invidia rende il paziente più consapevole, ma ciò non è sufficiente a lenire la sofferenza che causa questo complesso stato d’animo. Facciamo un esempio. Una persona che ha molta invidia per i soldi, potrebbe tranquillamente rendersi conto di come l’avere più denaro può essere un modo per aumentare la propria autostima, dato che nella nostra società sembra esserci un’equazione automatica tra avere più soldi = essere più capaci, o un modo per non sentire un vuoto affettivo, ma allo stesso tempo affermare candidamente: “Si, queste sono tutte cose vere, ma nulla toglie che io continui ad essere divorato dall’invidia.” Come superare allora questa fase di stallo?
A tal proposito è particolarmente utile la concezione di Jung sul simbolo. Per il grande psicoanalista svizzero “il simbolo è la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto” (Jung 1921 in “Tipi psicologici”). I simboli per Jung cercano di esprimere un qualcosa di nuovo, “pregno di significato” (Jung op. ibidem.), che permetta alla coscienza del paziente di approdare verso nuovi lidi. Non a caso lo stesso Jung, in un altro suo magistrale lavoro, “Energetica Psichica” (1928), considera il simbolo alla stregua di un “trasformatore di energia”. Per Jung il simbolo è un trasformatore perché induce a spostare l’attenzione psicologica dall’oggetto “a” all’oggetto “b”. Per chiarire meglio, mi si lasci citare un esempio che riporta proprio Jung in seguito ad uno suo soggiorno in Africa presso la tribù dei Wachandi. In occasione di ogni primavera la popolazione maschile si dedica con cura a questo rito: “Essi scavano nel terreno un buco di forma oblunga e vi piantano tutto attorno dei cespugli, a imitazione di un genitale femminile. Poi danzano intorno a questo buco tenendo le loro lance in modo che ricordino il pene in erezione. Danzando intorno al buco, piantano le lance nella cavità e gridano estasiati. Fin quando la cerimonia è in corso, nessuno dei partecipanti può guardare una donna….
Questa danza ha un significato particolare: è una cerimonia di fecondazione della terra, e per questo si svolge a primavera. E’ un’azione che mira a trasferire la libido dalla donna sulla terra, di modo che la terra riceva un valore psichico particolare e diventi quindi oggetto di aspettativa” (Jung1928, pag. 52). Dall’esempio citato, Jung conclude che “si tratta quindi di un’indubbia canalizzazione dell’energia” (Jung op. ibidem). In termini più semplici si può dire che il simbolo è un ponte verso un nuovo modo di vedere e percepire quanto ci circonda, e di conseguenza un propulsore di nuovi comportamenti.
Riportando il nostro discorso sull’invidia, possiamo notare come la concezione junghiana del simbolo ci permetta di considerare il contenuto dei pensieri invidiosi, dato che la persona vive ego-distonicamente la sua invidia e per lo più come un qualcosa che le si impone contro la sua volontà, come dei simboli che necessitano di essere canalizzati. Torniamo sul nostro esempio dei soldi per capire meglio. Cosa può esserci di simbolico nei soldi, che d’altra parte sono un qualcosa di molto concreto? Simbolicamente i soldi possono essere un’analogia delle possibilità che si hanno a disposizione. Si pensi per un attimo che chi è molto facoltoso ha più facilmente di fronte a sé la possibilità di scegliere tra più strade e più opzioni in una determinata situazione (per esempio nell’acquisto di una casa; nello scegliere se andare o meno all’università; nel decidere eventualmente se lasciare un lavoro frustrante o meno ect..), rispetto a chi dispone di meno possibilità economiche. Seguendo questo ragionamento, il voler più soldi potrebbe quindi essere la metafora del voler una maggiore libertà.
I soldi non sarebbero dunque importanti di per sé, ma per quello che nascondono. Così, continuando il nostro esempio, in ambito terapeutico si può aiutare il paziente a riflettere sul fatto se ritiene la sua vita troppo castrante. Spostare l’attenzione psicologica dall’invidia verso un qualcosa di esterno, in questo caso il denaro, ad un vissuto interno, il sentire la propria esistenza castrante, aiuta nel dedicarsi positivamente a se stessi e alla propria vita. Aiuta ad agire in base a quelli che sono i propri bisogni, senza più essere in balia di quanto avviene all’esterno.
Questo è solo un esempio, tuttavia ci facilita nel cogliere come la lettura junghiana del simbolo può rendere l’analisi quello spazio che consente di mentalizzare i pensieri invidiosi in termini di bisogni psicologici. Si può dire, per concludere questo breve articolo sull’invidia, che il compito dell’analisi non consiste nell’eliminare l’invidia, bensì nello “svuotarla” attraverso un afferrare i bisogni non visti e non riconosciuti presenti in essa. Operare in tale modo vuol dire tentare di esautorare l’invidia, trasformandola da un serbatoio di odio e rancore in quel quid che funge da volano nella costruzione di quel che si è in quel che si vorrebbe essere.