di Guido Scorza
238 euro e spicci oltre le spese di spedizione per un timbro recante lo stemma della Repubblica Italiana che sul libero mercato non costerebbe neppure 20 euro.
Un prezzo più alto di oltre dieci volte quello di mercato.
E’ questo uno dei tanti effetti perversi del riconoscimento, in esclusiva, all’Istituto poligrafico e zecca dello Stato, del compito di produrre e commercializzare – oltre a decine di altri prodotti ed utensili di uso comune nell’amministrazione italiana – i timbri recanti lo stemma della Repubblica.
Decine di migliaia di piccole e piccolissime amministrazioni italiane con in testa le scuole nelle quali, spesso, mancano i fondi per l’acquisto della carta e di altri generi di prima necessità, costrette ad acquistare, a peso d’oro, il proprio timbro dall’unico fornitore ufficiale imposto dalla legge anziché dal proprio fornitore di prodotti di cancelleria.
Un’esclusiva storicamente giustificata dall’esigenza di garantire adeguati standard di sicurezza nella produzione dei timbri così da evitare ogni rischio di contraffazione degli stessi.
La giustificazione, però, non ha mai convinto l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato che, infatti, sin dal giugno del 2011 ha segnalato al Parlamento l’esigenza di cambiare la legge perché – lo scrive testualmente l’allora Presidente Catricalà – “Per talune categorie di prodotti, la ragione giustificatrice delle esclusive potrebbe risiedere nell’esigenza di far eseguire all’interno del settore pubblico la produzione, per agevolare i necessari controlli dello Stato. Tali esigenze sembrano sussistere per le cartevalori e la fabbricazione delle monete aventi corso legale. Per tutti gli altri prodotti [n.d.r. ivi inclusi, evidentemente, i timbri], la ragione dell’esclusiva nelle forniture alle Amministrazioni statali attribuita al Poligrafico non sembra risiedere in motivi tecnici né in esigenze riconducibili a particolari caratteristiche dei prodotti e dei relativi processi produttivi, come è evidenziato dalla possibilità che l’esecuzione delle forniture sia affidata a terzi, qualora presso il Poligrafico stesso non vi sia capacità produttiva disponibile.”.
Tanto sarebbe dovuto bastare, in un Paese nel quale il risparmio dei costi dell’amministrazione e la liberalizzazione dei mercati avessero rappresentato qualcosa di più che uno spot elettorale o un manifesto propagandistico di governo, per cambiare le regole del gioco e liberalizzare la produzione e la commercializzazione dei timbri – e dei tanti altri prodotti dei quali il Poligrafico è e resta esclusivista – consentendo così alle amministrazioni di scegliersi, magari dati certi standards minimi di qualità e sicurezza, il proprio fornitore.
Così, però, non è stato.
La tassa sui timbri – e non solo – continua ad essere pagata da tutte le amministrazioni italiane.
Nell’era della pubblica amministrazione digitale e di leggi – Codice dell’amministrazione digitale in testa – che stabiliscono, in modo perentorio, il divieto delle amministrazioni di produrre documenti di carta e l’inutilità di timbri e punzoni, un’amministrazione dello Stato deve ancora, spendere – per legge e non per scelta – centinaia di euro in timbri da inchiostro, sottraendoli a scanner e pc.
Se ce ne fosse il tempo, l’abolizione della “tassa sui timbri”, sarebbe, una delle piccole ma simboliche leggi che il nuovo Parlamento potrebbe e dovrebbe approvare di corsa per dimostrare che, anche in Italia, qualcosa può cambiare davvero.