Mai come in questo periodo la politica offre uno spettacolo di inadeguatezza a fronte dei grandi problemi che provengono dal mondo del lavoro. Basti pensare alla questione del salario minimo, che si trascina da una legislatura all’altra in uno sterile contrasto fra opposte fazioni divorate dal fuoco della propria vanità mediatica. E intanto, la povertà lavorativa in Italia continua a fare vittime.
Ma in questa vicenda c’è un aspetto che spesso sfugge a molti osservatori: e cioè che il problema della povertà lavorativa non è legato solo al basso salario individuale, ma anche al reddito familiare complessivo. Di fatto si è lavoratori poveri anche se la paga non è “povera”, ma il reddito familiare mensile è inferiore a una certa soglia. Se un salario di 1.500 euro netti al mese è l’unico introito di una famiglia, il lavoratore non è tecnicamente “working poor”, ma lui e la sua famiglia vivono in forte ristrettezza.
Qui si apre il mondo del lavoro pubblico. La realtà che noi raccontiamo da anni, ma che ancora non trova spazio adeguato nel dibattito pubblico. Con un tasso di inflazione che si mangia gli stipendi al ritmo del 10% l’anno sui generi di prima necessità, moltiplicato per quanti sono i componenti della famiglia, oggi in Italia migliaia e migliaia di famiglie di lavoratori pubblici vivono situazioni che sempre più si avvicinano al limite della sopravvivenza. Ma non è così dappertutto.
Nei settori produttivi dove la contrattazione collettiva è forte e strutturata il lavoro povero fa poca breccia. Questo significa che un sistema di relazioni sindacali vivo e dinamico è in grado di attivare gli strumenti per contenere i danni della spinta inflazionistica, agendo sia sul livello nazionale che su quello decentrato. A condizione però che i rinnovi contrattuali avvengano tempestivamente e non ci siano vuoti di anni fra un rinnovo e l’altro. Del resto, la stessa OCSE in un suo report sull’andamento dei salari a livello internazionale ha spiegato che i danni maggiori dell’inflazione sono causati dai ritardi nel rinnovo della parte economica dei contratti collettivi.
La battaglia contro la povertà lavorativa si combatte soprattutto ai tavoli contrattuali in tre modi: 1) rinnovando subito i contratti alla scadenza, 2) aumentando le quote fisse di salario attraverso la contrattazione nazionale e 3) incrementando le risorse per le quote di salario accessorio da distribuire in contrattazione decentrata.
Se questo semplice principio vale per il mondo del lavoro privato, perché non dovrebbe valere anche per il lavoro pubblico? Ci piacerebbe sapere cosa ne pensa il Ministro della Funzione Pubblica.
Sandro Colombi, Segretario generale UIL Pubblica Amministrazione
Roma, 18 settembre 2023