di Luigi Oliveri 14/01/2013

Riforme della pubblica amministrazione alle calende greche. Tranne che non si tratti di interventi mediante i deprecabili tagli lineari, spessissimo le grandi riforme della pubblica amministrazione sono destinate a rimanere pie intenzioni, scolpite, però, su Gazzetta Ufficiale. Il timore è che gli interventi sull'organizzazione dello stato e sull'attività della pubblica amministrazione contenute nelle innumerevoli manovre di sviluppo del 2012 non avranno un destino diverso dal solito.

A cominciare dal riordino delle province, oggetto della bellezza di 4 interventi normativi nel volgere di 13 mesi. Prima il decreto «salva Italia», il dl 201/2011, convertito in legge 214/2011; poi, la spending review, il dl 95/2012, convertito in legge 135/2012; poi, ancora, il decreto legge mai convertito 188/2012 che avrebbe dovuto compiere definitivamente il taglio e l'accorpamento degli enti e, infine, la legge di stabilità per il 2013, la legge 228/2012 che rinvia tutto a tempi migliori.

L'articolo 1, comma 115, della legge di stabilità di fatto fa ritornare le lancette indietro di un anno, tornando esattamente al punto di partenza: l'intenzione, cioè, di realizzare una complessiva riforma dell'ente provincia, fondato su alcuni punti fondamentali. In particolare, la trasformazione in enti di secondo grado, con gli organi di governo dimagriti a causa della soppressione delle giunte ed eletti non direttamente dal corpo elettorale, bensì dai consiglieri dei comuni facenti parte della circoscrizione provinciale.

Il secondo punto dell'attesa riforma è la modifica appunto delle circoscrizioni. Per ridurre il numero degli enti, occorre accorparli, renderli più ampi, aggregando alcune province ad altre. Il terzo punto è il ridisegno della sfera delle competenze e delle funzioni, che le linee direttive delle tentate riforme del 2012 vorrebbero in gran parte attribuire ai comuni o alle regioni, a seconda che il loro esercizio fosse stato assegnato alle province da leggi frutto della potestà legislativa esclusiva dello Stato o della potestà legislativa concorrente/residuale delle regioni, lasciando alle province solo un nucleo molto contenuto di competenze.

Il quarto punto consiste nel trasferimento del personale e di tutte le risorse strumentali e finanziarie dalle province ai comuni o alle regioni, indispensabile per il completamento del disegno. Proprio il rinvio dell'attuazione del riordino contenuto nell'articolo 1, comma 115, della legge 228/2012 rivela quanto complesso sia il compito di portare a termine il riordino.

La legge di stabilità ha assegnato un altro anno di tempo, sia allo stato, sia alle regioni, per giungere alla riforma. È evidente che il tempo reale a disposizione sarà molto inferiore. Fino a febbraio, quando vi saranno le elezioni, l'argomento sarà forse solo oggetto di impegni da campagna elettorale. Poi, tra avvio del funzionamento del parlamento, procedura di nomina del governo, elezione del presidente della repubblica e attivazione dei primi atti legislativi e normativi, è facile immaginare che si arrivi a fine primavera o inizio estate senza ancora nulla di concreto per attuare la riforma.

E, probabilmente, nel momento in cui il dossier-province verrà nuovamente messo ai primi punti dell'ordine del giorno sarà oggetto di ampie modifiche, necessarie a migliorare di molto un processo di riordino che è fallito per l'eccessiva sua frettolosità e tecnicità.

Un altro rinvio che ormai si trascina da tre anni riguarda l'attivazione del cosiddetto «federalismo fiscale» ma, in particolare, del sistema per determinare uno standard dei fabbisogni e della spesa, tale da classificare gli enti locali in fasce di merito, ai fini della determinazione di regole e sanzioni graduate per il patto di stabilità.

L'articolo 1, comma 428, della legge 228/2012 rinvia di un altro anno l'entrata in vigore di una serie parametri di virtuosità (per esempio i costi standard, il rapporto corretto tra spesa del personale e spesa corrente, l'equilibrio di parte corrente, il tasso di copertura dei costi dei servizi a domanda individuale), nonché la previsione dei fattori correttivi del tasso degli occupati e del valore catastale ai fini della determinazione dei parametri di virtuosità.

Il prolungamento dell'attesa di queste disposizioni vanifica, nei fatti, ogni possibilità di modificare l'assetto della finanza locale e di regolare i trasferimenti dello stato così da commisurarli alla capacità impositiva e alle corrette necessità di spesa. Un altro tema che da sempre risulta oggetto di proclami o di riforme soprattutto della carta o delle intenzioni è quello del lavoro pubblico.

La legge 92/2012, la cosiddetta riforma-Fornero, all'articolo 1, commi 7 e 8, rinvia ad un'iniziativa del ministro della funzione pubblica l'armonizzazione della riforma del lavoro privato con le peculiari regole del lavoro pubblico. Tale rinvio, nel corso del 2012 ha fruttato solo un fantomatico protocollo tra Palazzo Vidoni e alcune sigle sindacali, per altro volto più che altro a modificare alcune regole sulla valutazione della produttività della riforma-Brunetta, in parte confluire nella spending review.

Dell'attuazione del protocollo si è persa qualsiasi traccia, così come dell'iniziativa legislativa di armonizzazione, che risulterebbe particolarmente urgente e indispensabile, per mettere un punto fermo sulla questione dell'applicabilità anche al lavoro pubblico della riforma dell'articolo 18 e delle nuove regole sul lavoro a tempo determinato.