di Anna Tarantino - Responsabile P.O. UIL PA Palermo
Il 25 novembre è la giornata che dal 1999 l’Onu dedica alla sensibilizzazione sul tema della violenza, fisica e morale, contro le donne. Anche quest’anno è l’occasione per fare il punto della situazione in Italia, in merito al fenomeno cd. femminicidio, ma non solo. Perché la violenza contro le donne è un dramma antico, che affonda le sue radici su aspetti di tipo culturale, legati a stereotipi di genere e diseguaglianze esistenti su vari fronti, tra cui il lavoro femminile. Un esempio per tutti è il fatto che le donne subiscono ancora il cd. "gender pay gap": cioè a parità di responsabilità lavorative, ricevono uno stipendio inferiore rispetto a quello di un uomo. Meno reddito equivale a una inferiore capacità di consumo e di acquisto di beni durevoli, di proprietà, di accesso al credito. Chi subisce violenza e non ha autonomia economica dal marito/compagno, difficilmente può riuscire a liberarsi da una relazione violenta, soprattutto se ci sono figli. Poter contare su un reddito e un lavoro dignitosi è una delle condizioni fondamentali per rendersi autonome dalla violenza. Ma a prescindere da questi aspetti, il lavoro, quando è svolto con piacere e passione, garantisce la piena espressione di sé e una reale emancipazione, culturale oltre che economica.
Una riflessione questa che contrasta pesantemente con l’ultimo Rapporto Ocse dedicato al lavoro femminile in Europa, che mette in evidenza come in Italia, permanga ancora un divario di genere sotto diversi punti di vista, sul piano del diritto al lavoro: occupazionale e remunerativo, oltre che scolastico. Ecco qualche dato. Nel nostro Paese le donne guadagnano il 12% in meno degli uomini. Ma non è finita, perché in un confronto con 34 Paesi europei, l’Italia si distingue negativamente per una sorta di “segregazione di genere”, data dal fatto che la maggior parte delle donne che lavora è relegata in ambiti professionali considerati tradizionalmente femminili: lavori di cura, di assistenza, di educazione (fonte: rapporto Eurofound “Women, men and working conditions in Europe”).
Altro discorso va fatto rispetto alla partecipazione scolastica e al mondo del lavoro da parte delle ragazze. L’Italia è la seconda peggiore realtà europea per inclusione scolastica e lavorativa delle ragazze; preceduta solo dalla Grecia. Infatti, i giovani che non sono più inseriti in un percorso scolastico – formativo, né impegnati in attività lavorative (i cc.dd. “Neet”, acronimo inglese che sta per “not engaged in education, employment or training”), sono il 26% dei ragazzi e ragazze di età compresa tra i 15 e i 29 anni di età. La situazione peggiora, però, ulteriormente se si considera esclusivamente l’universo femminile. Infatti, su base nazionale, la quota di ragazze estromessa dal mondo scolastico e del lavoro sale al 27,7%, mentre tristemente in Sicilia si raggiunge il valore più elevato in assoluto, con l’esclusione del 41,9% delle ragazze tra i 15 e i 29 anni (contro il dato europeo del 17,7%).
Si tratta di dati allarmanti perché l’inattività lavorativa e l’esclusione dal sistema della formazione, protratte nel tempo, rendono più difficile il reinserimento lavorativo. Ne consegue che la lotta contro l’abbandono scolastico, oggi debba rientrare anche tra le priorità delle politiche attive di genere. Il rischio è che, sottovalutando il fenomeno, si incrementino le disparità uomo – donna. Perché è bene ribadirlo, se non si scommetterà su strategie che operino efficacemente sul piano culturale, ogni 25 novembre dei prossimi anni, non potremo che continuare a riportare dati allarmanti su femminicidi e gap di genere.