di LENI REMEDIOS

“Ogni uomo porta in sé la forma intera dell’umana condizione”  (Michel de Montaigne)

Nel 1977, in uno scantinato del Palais Wilson di Ginevra, vecchia sede di un prestigioso Istituto di psicologia, viene ritrovato uno scatolone colmo di documenti. Il ritrovamento è il frutto casuale di un paziente lavoro di ricerca capeggiato dall’analista italiano Aldo Carotenuto. Di cosa si tratta? Lo scatolone contiene frammenti di diario e un carteggio importante fra tre soggetti: il padre della psicanalisi Sigmund Freud, il suo discepolo Carl Gustav Jung, in seguito allontanatosi per fondare una nuova teoria e una certa Sabina Spielrein, psicanalista ed autrice del diario.

Il materiale porta ad emersione particolari finora sconosciuti sulle vicende storico-biografiche dei tre personaggi, vicende che hanno inciso in maniera inequivocabile sugli sviluppi teorici di ognuno di loro. Ciò che viene alla luce turba e sconvolge talmente il mondo intellettuale da stimolare una lunga serie di saggi, opere teatrali e cinematografiche, di cui il film di Cronenberg, Un metodo pericoloso, rappresenta solo l’ultima appendice. Insomma, anche figurativamente parlando, Sabina Spielrein – dimenticata, rimossa, incompresa – emerge dal sottosuolo della civiltà, dall’inconscio della storia della psicologia, simboleggiato così bene dallo scantinato del palazzo ginevrino, per rivendicare la sua verità.

Sabina Spielrein è il perturbante della storia della psicoanalisi. Il primo dei lavori a lei dedicato è naturalmente il libro di Carotenuto, Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud. Uscito nel 1980 e presto tradotto in numerose lingue, esso contiene le lettere scambiate fra i tre, quanto ritrovato del diario di Sabina Spielrein ed ovviamente la propria visione critica dell’intera vicenda. Fondamentalmente su questo testo si basa il film di Roberto Faenza Prendimi l’anima, uscito nel 2002.

Ma chi era Sabina Spielrein? E la sua testimonianza parla a noi, uomini e donne della civiltà contemporanea? A malincuore ella rimane per i più “l’amante di Jung”. Aldo Carotenuto riporta, con profondo rammarico, il fatto che la principale preoccupazione del pubblico, ad ogni sua presentazione del libro, fosse se Jung e la Spielrein avessero avuto rapporti sessuali. Intendiamoci: quello a cui si rivolge Carotenuto non era un pubblico generico, egli si rivolge ad intellettuali, principalmente psicologi e psicanalisti. “Dobbiamo domandarci perché gli analisti sembrano ossessionati da questo punto che delle volte sembra essere non un problema, ma il problema per eccellenza”. Non è questo il punto, dice Carotenuto. Ed infatti l’eventualità non avrebbe aggiunto o tolto nulla, ad un rapporto che di sicuro aveva la dimensione totalizzante dei grandi amori, in cui le due personalità erano in una simbiosi animica sorprendente.

Senza contare che da un pubblico di intellettuali ci si aspetta che si indaghi a fondo sulle ripercussioni teoriche che una personalità come Spielrein abbia avuto sui fondatori rispettivamente della psicoanalisi e della psicologia analitica, discipline in cui, lo puntualizzo per il lettore non avvezzo a certi temi, sussiste un corto circuito assente in tutte le altre scienze: il soggetto e l’oggetto dell’indagine sono lo stesso, è l’uomo che indaga l’uomo.

Il film di Cronenberg prende spunto da un libro uscito nel 1993, A most dangerous method, scritto da John Kerr, uno psicologo clinico americano. Christopher Hampton, sceneggiatore di Cronenberg, ne trasse una piece teatrale che il regista canadese volle in seguito portare sul grande schermo. Il testo di Kerr, che appone al titolo una sottile differenza enfatica rispetto al film (“Un metodo molto pericoloso”, tratto da un’espressione di William James), parte dalla scoperta di Carotenuto per avventurarsi in una favolosa opera di contestualizzazione storica del materiale emerso. Già qui si rivela infatti una differenza fondamentale fra il testo ed il film: il lettore sappia che si tratta di due cose profondamente diverse e forse, nella leggera modifica del titolo, Cronenberg intende già manifestarlo.

Il film di Cronenberg – per inciso, non certo uno dei suoi migliori – prende il triangolo Jung-Spielrein-Freud e lo isola completamente dal contesto. I pochi altri personaggi che compaiono nella scena, come la moglie di Jung oppure Otto Gross, che mise seriamente in crisi Jung sulle proprie inclinazioni poligame, sono delle mere tangenti rispetto a quel che interessa della storia.  Il testo di Kerr, al contrario, è infatti corale: esso esamina tutti gli attori che hanno movimentato le scene di quegli anni fatidici per la storia delle dottrine psicologiche e, osiamo dire, per la storia della civiltà occidentale. Il pregio di questo testo risiede nel ricostruire dettagliatamente e scientificamente i fatti di quegli anni, con la resa narrativa di un romanzo.

Una delle scene chiave del film, che manifesta l’intento del regista, è quella in cui Freud sviene dinanzi a Jung (secondo svenimento, il primo avvenne alla vigilia del viaggio in America): qui Cronenberg sceglie di ambientare la scena alla fine di un imprecisato incontro fra studiosi, dove, nell’atto di raccogliere le proprie carte, tutti se ne vanno lasciando soli Freud e Jung a discutere. Potrebbero essere delle macchie indistinte ad andarsene, sarebbe la stessa cosa. Nella realtà si trattò di una riunione molto vivace che si tenne in un hotel di Monaco, dove tutti presero la parola, soprattutto in merito alla figura egizia del faraone Amenhotep, che secondo Freud covava desideri parricidi. Freud fece ovviamente di tutto, nell’occasione, per rimarcare l’ingratitudine del “figlio ed erede” Jung, sempre più orientato verso una propria nuova teoria e i dietro le quinte di questa riunione sono anche più interessanti al riguardo. Alla fine della discussione la tensione sfocia nello svenimento.

Una metafora efficace per far capire la dinamica della storia di Sabina Spielrein all’interno di questa coralità, è quella del telaio: dobbiamo immaginare la Spielrein come la navetta che si muove fra le trame e gli orditi, ovvero fra i fili tenuti assieme dal telaio. Ogni trama ed ogni ordito – i singoli protagonisti – vengono accuratamente esaminati e sviluppati da Kerr. Non solo Freud e Jung: Bleuler, Forel, Flournoy, Riklin, Abraham e molti altri…tutti vengono in qualche modo solcati dalla navetta che li attraversa e che, fino alla fine degli anni ’70, sarà relegata nel buio, costringendo a lasciare una matassa di fili non del tutto decifrabile.

Moltissimi aspetti potrebbero essere esaminati nella storia (nelle storie) che Sabina Spielrein porta ad emersione. Di questi ne scelgo due, riassumendoli simbolicamente in due parole cariche di significato: silenzio e femminile. “Il silenzio che così a lungo ha atteso la sua storia è emblematico di un silenzio ancora più insidioso che gradualmente ha sorpreso la psicoanalisi durante questo tempo”. “…Sabina, pioniera della psicoanalisi, figura fino a poco tempo fa negata, rimossa o fraintesa…”. Ed è proprio la parola rimossa, evocata da Lella Ravasi Bellocchio nel suo bel libro sulle madri, il termine più appropriato in merito alla figura di Sabina Spielrein, ma soprattutto in merito a quel che essa incarna e simboleggia.