L’Italia è in piena campagna elettorale, e l’attenzione sembra essere tutta sulle liste e gli incandidabili. Ma fuori dal “Palazzo” c’è la gente che di beni e privilegi non ne ha, e per la quale l’unico vero problema è riuscire ad andare avanti con le proprie risorse oltre la terza settimana del mese. Sarà forse questa la fotografia reale del Paese in cui un italiano su dieci vive in condizione di povertà relativa, la disoccupazione giovanile è in aumento per il quarto anno consecutivo, i consumi sono in caduta libera e il reddito disponibile delle famiglie è tornato ai livelli del 1986. I dati sono il risultato di studi elaborati dall’Istat, Censis e Rete Imprese Italia e hanno il compito di raccontare il progressivo impoverimento percepito dagli italiani. Avanti! ha intervistato Giuseppe Roma, direttore generale del Centro Studi Investimenti Sociali che non ha dubbi: la situazione attuale è il riflesso della crisi internazionale, ma anche delle responsabilità della classe politica e dirigente italiana.
L’Istat ha presentato uno studio in cui viene lanciato l’allarme povertà: sono 3,4 milioni le persone che vivono in quella assoluta e 8,2 in povertà relativa.
Il fenomeno della povertà va studiato non solo in termini statistici, dunque quantitativi, ma anche in relazione al cambiamento delle condizioni delle famiglie: oggi una persona è povera anche se ha un lavoro fisso, una casa e uno stipendio. Ma se all’improvviso ha un grave incidente o sopraggiunge la malattia di un genitore, a quel punto le risorse a disposizione (senza un aiuto pubblico o un sostegno assistenziale) possono non essere sufficienti, e si rischia di cadere in una situazione di povertà. Il fenomeno della povertà va dunque visto in termini di situazioni sociali.
Ad allarmare sono anche i dati relativi alla disoccupazione giovanile, al 29,1%, percentuale in aumento per il quarto anno consecutivo e superiore a quello medio dell’Unione europea (21,4%).
La nostra economia non cresce e le ricette (per esempio la detassazione degli stipendi o gli incentivi ai giovani), possono avere degli effetti, ma devono rispondere a un incremento delle attività. Sin da subito bisognerebbe dare strumenti e finanziamenti ai giovani che intendono mettersi in proprio. Personalmente ho concepito l’idea di una banca di tipo privato, un fondo a favore dei giovani: immagino dei tecnici che si rivolgono ai giovani, concedendo loro un finanziamento non regalato, bensì meritato.
Stando ad uno degli ultimi studi i redditi degli italiani sono equiparabili a quelli del 1986, senza contare che il potere d’acquisto della nostra moneta si è abbassato, sia nel tempo che con il cambio di valuta. Cosa ha prederminato questo passo indietro?
Il dato è il risultato di una media tra famiglie vecchie e giovani. Quelle vecchie non hanno aumentato, né diminuito il loro reddito disponibile, mentre quelle giovani, quindi quelle nuove, hanno redditi che sono la metà di quelle precedenti. Dunque è il valore medio che diminuisce perché dalla “cesta” delle famiglie escono quelle più ricche, ed entrano quelle meno ricche. Si riduce il valore medio e il totale è molto più basso. Cala l’occupazione, si contrae il Pil, non c’è cambio generazionale e tutto ciò conduce a nuove famiglie con un reddito quasi pari alla metà di quelle precedenti.
Secondo lo studio elaborato da voi del Censis, quasi la metà dei lavoratori, il 46%, prevede una vecchiaia di ristrettezze con assegni pensionistici di poco superiori alla metà dello stipendio.
Il problema è che la spending review ha toccato l’aspetto previdenziale, l’allungamento dell’età pensionale e la revisione delle quote pensionistiche. È inoltre entrato in vigore il metodo contributivo. È comprensibile che oggi un 35enne, che ha accumulato poco, si immagina una pensione molto bassa. Fino a un decennio fa un giovane non pensava alla pensione, perché era qualcosa che veniva garantito dallo Stato.
Quello che stiamo vivendo è il frutto di un inevitabile riflesso sulla situazione italiana della crisi internazionale o esistono delle precise responsabilità da parte della classe politica e dirigente italiana?
L’origine della crisi viene fuori dall’Italia, però la capacità di governarla è nelle mani delle classi dirigenti e politiche dei singoli paesi. Negli ultimi 10-12 anni siamo stati particolarmente “svagati”, abbiamo discusso di tante cose, ma c’è stata una scarsa preoccupazione nei confronti del nuovo quadro: la globalizzazione, ossia la competizione a livello mondiale. A noi italiani, attaccati dalla speculazione internazionale, ci è mancata la capacità di disegnare una strategia capace di ridurre i problemi in quei settori che rischiano di scomparire, come quello dell’edilizia che vede tante piccole imprese in crisi.
Il caso del senzatetto morto nelle vicinanze del teatro San Carlo di Napoli ha riportato l’attenzione sulla triste situazione degli homeless, che sarebbero in aumento soprattutto nella classe media. Cosa ne pensa?
L’80% della spesa sociale va in previdenza e sanità, e noi per la casa non spendiamo nulla. Mi sembra evidente che chi subisce uno sfratto si ritrova in una condizione che peggiora, e che rischia di diventare allarmante se non ci sono quegli interventi di edilizia sociale che prima esistevano come l’edilizia convenzionata.
Quale può essere la fotografia precisa delle previsioni lavorative e pensionistiche per le famiglie italiane?
La famiglia ha bisogno di stabilità, di un miglioramento sul piano fiscale, ma la stabilità maggiore è quella che consente di avere più serenità per fare i nostri impieghi e i nostri investimenti. Quindi le prospettive a breve sono quelle di cercare di mantenere ciò che si ha: la famiglia italiana ha finito i buchi della cinghia da stringere. Il 2013 sarà un anno di stabilizzazione, con un’apertura a partire dal 2014.
Silvia Sequi